Maestro,
gli ultimi anni sono stati piuttosto
pesanti.
In me qualcosa è cambiato, è mutato,
si è innalzato e poi è ricaduto su se stesso.
Ho acquisito la capacità di
osservare senza giudizio, di amare senza risultato, di aspettare senza mai
chiedere il ritorno. Quei semi che in me lei ha coltivato sono cresciuti e
hanno posto il piedistallo alla mia statua di bronzo.
Ricordo ancora il suo serio sguardo
amorevole verso di me, verso le mie azioni, verso i miei acuti lamenti a questa
tempestosa vita.
Il mio cuore, maestro, palpita
nell’attesa della mia ultima liberazione, freme nel vedere le piccole formiche
coricarsi il peso di un irreale futuro.
Cos’è allora che nel profondo mi
preme?
Anch’io ho i miei sogni o sono solo
frutto della mia giovinezza?
Da bambino ho dovuto conoscere la
realtà di chi è uomo, e da uomo son dovuto ritornare bambino per entrare in
quel regno in cui i passi di chi è troppo grande mai saranno accettati.
Questo tempo, maestro, coltiva solo
ignoranza e pregiudizio, e finisco col digrignare i denti come fossi uno di
quei cani che ringhiano incatenati.
Negli ultimi tempi ho viaggiato
molto, conosciuto luoghi diversi, ho vagato a fondo nell’osservare le persone e
i loro schemi, mi sono ritrovato a esserne vittima e carnefice.
Sento ancora delle catene che mi
tengono legato a ciò che in realtà rifuggo.
Eppure la Sua voce mi incita ancora
a tornare sui miei passi, a varcare quei muri che sembrano tanto immensi, ma
che in realtà sono costruiti sulle mie paure, sulle mie sicurezze, sullo schema
vecchio di un uomo che non si vuol lasciar morire.
Nostalgia, una tremenda nostalgia di
casa.
Ma in questo mondo, maestro, tocca
abbassarsi per innalzarsi, svuotarsi per riempirsi, morire per rinascere di
nuovo. Lei sa bene di cosa sto parlando.
Non mi sento più di appartenere a
nulla e nulla sento che mi appartiene, nemmeno quel poco per cui ho faticato,
nulla per cui valga la pena lottare, se non la pallida fiammella che tiene in
vita questo mio cuore.
Ecco, lottare è diventato un inno a
me stesso, a ciò che amo e a ciò che veramente porto nel grembo, il figlio di
me stesso, il senza-padre, la madre della rigenerazione.
Assistimi maestro, perché la strada
è lunga e irta di pericoli, ma nonostante tutto mai si fermeranno queste gambe
che tu hai tempo fa risollevato dalle sporche acque.
Questo è il mio debito, il debito
che faccio a lei e a me stesso.
Non mi arrenderò.
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